venerdì, marzo 24, 2006

 

Lo scioperato fra le scioperanti

Correva l’anno 2000, io stavo da un bel po’ con una con cui non sto più da un pezzo, e a costei toccò in sorte di andare a lavorare al MacDonald’s di via Cavour angolo via Guelfa, a Firenze. Il gestore in franchising di quell’esercizio non pareva più stronzo di un qualsiasi gestore in franchising di un qualsiasi marchio, e forse non lo era. Fatto sta che si creò una situazione di tensione fra questi e le sue lavoranti (quasi tutte femmine, studentesse ed italiane) che sfociò in episodi che le ragazze considerarono mobbing – e che nessun tribunale saprà (or)mai dirci se lo era anche giuridicamente. Io c’ero – che a volte non conta un cazzo, a volte, anzi, sarebbe meglio non esserci per capirci qualcosa: Vittorio Alfieri, a Parigi, non capì una cippa della Rivoluzione Francese, i diplomatici veneziani che la seguivano da Londra scrissero lettere ai propri capi che a tutt’oggi fanno scuola (ne parla Sergio Romano da qualche parte, lo ho sempre in mente quando penso agli amici che mi partirono festaioli, conformisti e apolitici per Genova e me ne tornarono manganellati, comunisti e apocalittici). Epperò io c’ero, e questo lo posso dire: che se gli episodi raccontati dalle ragazze non fossero veri, le loro lacrime erano da oscar. Io c’ero, e giravo fuori dal negozio a fumare i miei cicchini e a leggere il giornale, pronto a intervenire nella veste di casuale avventore se episodi analoghi si fossero ripetuti.
Alla fine fu sciopero. Uno sciopero anche piuttosto banale, ma era il primo sciopero in un MacDonald’s italiano. Vennero i Tg, le ragazze andarono da Santoro (che in quell’occasione fu straordinariamente sobrio) e dalle Iene (dove un mio omonimo “mostruoso” le vendicò burlescamente per quanto poteva). Vennero anche, ovviamente, i sindacalisti (di tutte e tre le confederazioni maggiori, se non ricordo male), e soprattutto quello della Cgil fece il suo. Vennero anche i politici, ma quello sciopero intendeva ergersi contro la prepotenza di un singolo franchiser, non contro la globalizzazione (parola di là da venire) o la MacDonald’s in generale – anzi, le ragazze gli autonomi ce li avevano anche abbastanza sull’anima, perché erano soliti entrare in sala per insultarle in quanto “serve del capitalismo” (inutile dire che nessuna era lì a lavorare per suo diletto). Venne anche il mega-direttore nazionale della catena (che riconobbi pochi mesi dopo, in una foto sul "Giornale", intervistato da Lorenzetto); discusse con le ragazze per una mezz’ora a pochi metri da me; pochi minuti dopo, a una radio, dichiarava di non averle mai viste e di appoggiare in toto il suo uomo in via Cavour. Sarebbe stato tanto facile scaricare 'sto tipo, che si vociferava avesse già combinato dei casini a Milano; senz'altro contribuì la politicizzazione della vicenda, e soprattutto il fatto che a quel primo sciopero ne seguirono a stretto giro altri in altri MacDonald’s fiorentini e italiani. In ogni caso la MacDonald’sItalia aveva fatto la sua scelta.
Sono passati un sacco di anni e non ricordo più perfettamente la sequenza degli eventi. Il giorno dello sciopero venne diffuso un volantino in cui gli aderenti spiegavano le loro ragioni e raccontavano cos’era successo. Scattò la denuncia per diffamazione, le ragazze si licenziarono controdenunciando – o viceversa, non ha molta importanza. La cosa importante è che, a giro, di quattrinai con tanta voglia di foraggiare l'italica avvocatura ce n'era pochi. I politici, soprattutto quelli che avevano appesantito la situazione, promisero lì per lì assistenza legale, continuarono a farsi vedere finché c’era speranza che i media li inquadrassero (e finché non fu chiaro che nessuna delle lavoratrici avrebbe ceduto al fascino del capetto), persero i documenti che gli venivano portati via via - una, due, tre volte (in un ufficio della Regione dall’aria pregna di psicotropo), quindi si defilarono in buon ordine. Omissis su altri particolari, più che altro perché quando schiumo divento più impreciso del solito (vedi clamoroso lapsus nel testo linkato sopra, dove scrivo ripetutamente "capitalismo" invece di "liberismo"). Alla fine si prese carico della faccenda il fratello di un’amica, Federico Micali, a proposito del quale avrei mille cose da ridire, e forse prima o poi le ridirò (di lì a poco diventò uno dei legali del Social Forum), ma a cui bisogna tributare un quantitativo di riconoscenza pari al lavoro gratuitamente svolto in questi anni – non poco, comunque.
Finché l’altro giorno l’avvocato della controparte lo chiama e gli fa qualcosa del tipo: “Pari e patta?”. Considerato che entrambi i processi sarebbero quasi sicuramente andati in prescrizione, e considerato il costo anche emotivo del trascinarsi della vicenda – le ragazze e quello là hanno ritirato le reciproche denunce. Ricordo, di quel periodo di merda, tutta la bella vanità di essere (per quanto inutilmente) dalla parte del giusto e del debole, con per giunta il gusto di dimostrarmi quanto non fossi ideologizzato (in un senso o nell’altro) a proposito di questo sfigatissimo simbolo americano parente rancido dei trippai. Ricordo un’infelice uscita della Bonino (qualcosa del tipo: “Ma cosa vogliono questi ragazzi? Che si inventino un altro lavoro”), evidentemente all’oscuro del succo della vicenda (un semplice caso di mobbing o – come vi pare, ma non di fronte a me - di diffamazione; un caso in cui una grande azienda decide di difendere il suo uomo ad ogni costo, per una strategia che mi piacerebbe tanto non fosse premiata dalla fortuna). Ma allora ero un votante non militante e non ci feci troppo caso; pensai solo che, fossi stato parte di quel “manipolo di cocciuti visionari” (come la Bonino definiva e definisce i suoi), magari glielo avrei potuto dire. Qualche mese dopo ero in piazza a far tavolini.
Dopo le ragazze, al MacDonald’s di via Cavour angolo via Guelfa hanno badato di prendere a lavorare solo immigrati pasolinianamente adorabili.


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