venerdì, settembre 28, 2007

 

DONNE GIRAFFA BIRMANE


diritti delle donne ed emancipazione dei popoli / link

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martedì, settembre 25, 2007

 

solo per addetti Covi

LUNEDI' SCORSO

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S.A.R.


La definizione della metodologia nelle scienze sociali è ancora oggetto di discussione; non è possibile applicare alle scienze sociali le stesse teorie di ragionamento scientifico e categorie di esperimento che si applicano alle scienze fisiche.
Ciononostante la ricerca antropologica e sociologica e la comunità scientifica sono andate avanti brancolando un po’ nel buio, dotandosi di temporanee regole di indagine provvisorie, quindi non rigide, ma, facendo esperimento anche di questa esperienza, consolidate da decenni di pratica.
Una delle regole fondamentali della ricerca antropologica ( anche sulla differenza tra antropologia e sociologia il discorso è aperto ) è la cosiddetta osservazione partecipante. Si tratta di mantenere un equilibrio tra il coinvolgimento e il distacco, fra l’ “immersione nel campo” e la “visione oggettiva”, e di saper cogliere anche in se stessi quelle divisioni pregiudiziali del mondo che renderebbero l’osservazione parziale: in linguaggio tecnico, oggettivizzare il soggetto. Solo una simile

disposizione permette di cogliere i fatti sociali nella loro configurazione effettiva; questo concetto viene ripetuto a sfinimento nei corsi universitari, anche se la ripetizione non garantisce la comprensione. E’ in realtà un concetto importante; ha recuperato l’antropologia dalle paludi dell’eurocentrismo e ha aperto alla sociologia la possibilità di proseguire oltre l’analisi di idealtipi.
Così se si vuole indagare sulla rimozione operata dai media nei confronti del popolo radicale, è necessario un certo coinvolgimento, grazie al quale si evita di dire sciocchezze come Franceschini, ( di recente, intervistato a RR, ha sostenuto che Marco Pannella non ha bisogno di visibilità, anzi ne ha anche troppa, dato che tutto ciò che fa lo fa solo per apparire ), e un certo distacco, che allontani il rischio opposto del vittimismo irresponsabile.
Di rimozione sociale si parla in effetti non da molto; il termine rimozione, trasferito dal linguaggio psicologico, a livello sociale consiste nella distruzione di blocchi interi di informazione, vuoi filtrati individualmente, vuoi selezionati all’origine con meccanismi automatici o controllati.
La rimozione non avverrebbe affatto per un semplice sovraccarico di informazione, come si era ritenuto fino ad ora, ma sarebbe frutto di una selezione mirata che individua “pensieri molesti” e “ciò di cui non si deve parlare” ancora prima che arrivino alla consapevolezza, personale o sociale che sia.
Non c’è bisogno di un grande vecchio per dare l’ordine di rimuovere i radicali dai media, bastano alcuni input ben distribuiti e poi l’ingranaggio si attiva da sé, penetrando nei meccanismi della riproduzione sociale quotidiana. Già il fatto che i radicali si occupino di molti temi rimossi socialmente, come la fame nel mondo, o l’eutanasia, tutti i fenomeni clandestini, o le mutilazioni genitali, genera un effetto di naturale rifiuto.
Che i radicali siano esclusi dai media è una certezza che viene dai dati del Centro d’Ascolto; anche se, grazie alle premeditate azioni di Daniele Capezzone, i dati di presenza del 2006 e 2007 sono falsati dalle sue presenze a titolo personale.
Non solo la rimozione opera, nella esclusione stigmatizzante dei radicali: spesso, quando l’informazione viene data, è incompleta, manipolata, caricaturizzata ecc.; parte del linguaggio viene letteralmente rapinato e attribuito ad altri, come è successo al termine radicale attribuito alla “sinistra radicale” o addirittura “ ala radicale del Governo”, intendendo sempre la sinistra che un tempo era semplicemente estrema.
Un’ interazione non si consuma mai da sola; anche gli esclusi sono parte dell’esclusione.
Senza scomodare la sociologia dei gruppi, è evidente che un gruppo escluso sviluppa strategie di rafforzamento interno, che se promuovono il senso di appartenenza e la spinta identitaria ottengono anche l’effetto di aumentare le distanze dagli escludenti, che in genere non aspettano altro.
Se poi si aggiunge una vita interna al gruppo a dir poco vulcanica si capisce che i radicali non possono dimenticarsi oltre del Caso italia.
Una parte minoritaria del gruppo radicale ha piena coscienza della centralità del tema; i radicali mancano non solo dai telegiornali, ma anche da tutto il palinsesto televisivo e di stampa. Abbiamo visto uno speciale su Enzo Tortora senza che si parlasse della sua militanza; idem per Pier Paolo Pasolini e per Leonardo Sciascia. Si parla e si discute di finanziamento pubblico ai partiti, testamento biologico, libertà di ricerca scientifica, senza invitare i radicali. Si rimuove la storia radicale dai programmi delle facoltà di scienze politiche tanto che a Firenze è possibile laurearsi in scienze politiche senza averne sentito mai parlare, se non per la buona sporadica volontà di un assistente giovane o di uno studente anziano. I radicali sono esclusi dal Senato, dalla storia, dalla cultura, dai mezzi di informazione e a volte, purtroppo, si escludono anche uno con l’altro.
Un’ altra parte dei radicali dà la colpa a Marco Pannella, e personalizza il problema, che tanto personale non è, se ricordiamo le censure che hanno colpito Luca Coscioni e colpiscono oggi l’operato al Governo di Emma Bonino; o l’anatema lanciato su Rita Bernardini, rea di averle cantate e suonate ai giornalisti fin dall’avvio del suo discorso di insediamento come Segretaria di Radicali Italiani, trattandoli da scribi e farisei ipocriti quali sono.
Marco Pannella gode di un veto particolare aggiunto, è vero. E’ vero anche che tirar fuori gli scheletri dagli armadi degli altri non ti rende simpatico a chi ne ha tanti, e, come ha detto un parlamentare intervistato da Radio Radicale “ non si può invitare Pannella senza che si metta a parlare di palermitani e corleonesi “.
Questo indica anche la paura e l’ignoranza di chi lo ha detto, del quale non ricordo il nome, che non conosce il popolo che governa; se facesse un giro in autobus o in qualcun altri dei miseri luoghi dove si consuma la vita della normale e povera gente, dei nostri indios, come li ha chiamati Amato, scoprirebbe che il trucco dei ladri di Pisa ( litigavano di giorno e andavano insieme a rubare di notte ) è ormai scoperto e svelato in tutti i suoi aspetti, e che i governati sono astuti quanto i governanti; solo, hanno meno risorse, privilegi e tempo da perdere.
Piuttosto, i radicali stanno a dimostrazione vivente della falsità del teorema craxi-amato che tutti rubavano, dell’ eccezione al teorema popolare che i politici sono tutti uguali, teorema che discende dal precedente dei ladri di pisa.
Altri radicali non danno importanza alla questione, perché sono fortemente presi e coinvolti dalle azioni che portano avanti, caso Italia o no; magari pensano anche che sia meglio presentarsi alle elezioni da soli, né con questa destra né con questa sinistra, e pace se non si entra nei palazzi; forse non considerando che un soggetto politico è politico in quanto accetta di assumersi responsabilità di Governo.
Senza contare, in questa iniziale disanima delle sottocategorie del gruppo radicale, gli infiltrati e le lingue biforcute.
Alla fine non è vitale capire ora se il muro costruito tra i radicali e l’opinione pubblica è istituzionale o è un meccanismo sociale autoriprodotto, molto più vitale è trovare un accordo nel definirlo e tentare le possibili strade per abbatterlo.

S.A.R. ( Società di Antropologia Radicale )

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lunedì, settembre 03, 2007

 

DON PERIGNON


DON GELMINI EMPIRE
di Claudia Sterzi

Don Michele Santoro ne sa una più del diavolo; sapeva bene quello che faceva quando, nel maggio scorso, ha dedicato una parte del suo programma, Anno Zero, a Don Cantini e in particolare a una delle sue “predilette pupille”, che si è prodotta in un outing intenso e mi auguro per lei terapeutico. La sua sofferta testimonianza, punteggiata da particolari scabrosi, ha portato alle stelle l’audience ma non ha fornito informazione corretta sul fenomeno, tutt’altro che isolato e saltuario, delle violenze fisiche e psicologiche compiute da uomini di chiesa su minori o comunque su giovani affidati alle loro sollecite cure; effetto che, a giudicare dalla selezione degli ospiti, era voluto e non secondario.
Comunque la si pensi, scrivere di questo argomento comporta una serie di riflessioni preventive che vanno dal garantismo nei confronti di presunti innocenti al dovere giuridico di tutelare i minori, dal rischio di accanimento anticlericale a quello di omertà corporativa.

Da quanto ne può sapere dai media un cittadino qualunque, le accuse di abusi lanciate su Don Pierino Gelmini da due ex ospiti della comunità Incontro, non hanno altro fondamento che le stesse due testimonianze, non molto credibili di fronte alla parola del sant’uomo, che da anni lavora nel recupero di tossicodipendenti, malati di aids e sbandati vari.
Alcuni politici, Gasparri in testa, si sono schierati a difesa pregiudiziale di Don Pierino; pregiudiziale perché, se non possiamo avere certezza del suo reato se non da indagini e giusti processi, non possiamo neanche presumere una calunnia prezzolata dei due ragazzi solo perché tossicodipendenti, ex o no che siano.
Inoltre l’eventuale abuso di un ragazzo in comunità non è un reato minore, anzi è aggravato dall’autorità che il responsabile esercita e dal suo potere di ricatto che gli permette di rispedire in carcere chi non tragga giovamento dalla vita comunitaria.
Il rischio di cadere nel linciaggio mediatico è presente, ma anche quello di lasciare in mano centinaia di giovani in condizioni di disagio a un eventuale prete pedofilo che esercita una carità a dir poco pelosa non è da meno; questo, nessuno è venuto in televisione a dirlo.
Il sito di Don Gelmini ne celebra in modo stucchevole la vita e le opere: umile nel suo servizio agli ultimi, poverello come San Francesco, tanto che sostiene di essersi nutrito a lungo a “pane, mortadella e mele”, si narra come la sua missione sia nata dall’incontro con un tossicodipendente di strada. Da quel giorno la parola d’ordine del Don diventa “vieni, ti porto a casa mia” e la rete di comunità Incontro, oggi dotata di sedi in tutta Italia e nel mondo, con lo “scopo sociale di assistenza ai tossicodipendenti, alcolisti, anziani, portatori di menomazioni psichiche e fisiche ed a quanti siano emarginati, abbandonati od in particolari condizioni di necessità” ( 164 sedi residenziali in Italia e 74 sedi residenziali in altri Paesi: Spagna, Francia, Svizzera, Slovenia, Croazia, Thailandia, Bolivia, Costa Rica, Brasile, Stati Uniti, Israele ), di un giornale ( Il Cammino ), di una rete tv ( Tele Umbria Viva ), comincia a prendere forma.
Ma se si digita il nome di Don Gelmini su un motore di ricerca internet, un’altra realtà appare, una realtà che non è certo da prendere per oro colato, ma pure merita attenzione per alcuni aspetti.
Non sono solo pettegolezzi e voci anonime quello che si trova; parla la cronaca giudiziaria, parlano articoli di giornalisti con nome e cognome.
Il nostro monsignore, come si fa chiamare, è stato inquisito e condannato per truffa, emissione di assegni a vuoto e bancarotta fraudolenta insieme al fratello, Padre Eligio, negli anni ’70; la storia, contornata di festini, ville lussuose e jaguar in giardino ( pane e mortadella? ) fece ai suoi tempi un bello scandalo. Fuggito alla giustizia si rifugiò in Vietnam, dove fu accusato di essersi appropriato indebitamente di altri patrimoni. Tornato in Italia ha scontato quattro anni di carcere venendo spesso tenuto in isolamento dal direttore del carcere perché “troppo promiscuo”. Niente che dimostri un reato d’abuso, certo, ma elementi pertinenti all’analisi tanto quanto la versione ufficiale rose e fiori.
Pagato il debito con la giustizia, Don Gelmini viene scagionato da altre accuse, sempre patrimoniali, ed ha la fortuna di incontrare generosi donatori ( uno degli ultimi, Berlusconi, gli ha staccato un assegno con tanti zeri ) che lo aiutano e costruire la rete comunitaria, esente ici e godente di finanziamenti statali cospicui. Il fratello gestisce la rete di comunità Mondo X e un resort di lusso “La frateria di Padre Eligio”, esente ici ecc.ecc.
Parlano anche le presunte vittime. Qualcuna in forma anonima, ma altre con nome e cognome; i racconti comprendono elementi simili, gli stessi presenti nelle testimonianze delle vittime di Don Cantini: scelta di soggetti variamente deboli, a basso potenziale di denuncia legale e pubblica, coercizioni psicologiche, mescolarsi di abusi fisici e rituali religiosi, oculata gestione del dopo abuso.
Si può capire che se non ci fossero Don Gelmini, Padre Eligio, Muccioli, e compagnia credente non sapremmo come affrontare quell’emergenza che le strategie proibizioniste producono.
Si può capire come la società italiana preferisca chiudere gli occhi e affidare il recupero al chiuso delle comunità, piuttosto che affrontare il problema, ma un effettivo e continuo controllo su chi gestisce i miliardi che girano intorno a tali comunità e soprattutto la vita di tanti giovani è doveroso.
Dovrebbe capire e condividerlo anche Don Gelmini. Invece la sua reazione è stata invelenita, scomposta e poco caritatevole; si è scagliato sui ragazzi divulgando ai quattro venti la loro qualità di tossici e ladri, disposti a vendersi per due denari, ha gridato al complotto ebraico – massonico – radical chic, al linciaggio mediatico.
In attesa del proseguimento delle indagini, ecco, per curiosità, la lista delle onorificenze che l’umile servitore degli ultimi si è conquistato, e che fanno bella mostra nel suo sito:
Esarca Mitrato del Patriarcato di Antiochia e tutto l'Oriente, nella Chiesa greco-melkita cattolica,
Premio Internazionale "Marcello Candia 1985""Albero d'Oro" (Roma, Campidoglio 15 dicembre 1990)Premio "Albert Schwaitzer", della Fondazione Johann Wolfgang von Goethe de Bâle (Strasburgo, 10 giugno 1992)Distinzione "Servitor Pacis" della Path to peace Foudation", che sostiene la Missione permanente della Santa Sede all'ONU (New York, 15 giugno 1999)
Commendatore al merito, della Repubblica italianaCavaliere dell'Ordine Equestre della Santa Croce di Gerusalemme (29 giugno 1969)Maggiore Garibaldino e Primo Cappellano della Legione Garibaldina (21 ottobre 1974)Cavaliere di Gran Croce del Reale Ordine Cavalleresco Militare di San Casimiro (29 giugno 1980)Gran Comandante dell'Ordine di Georg Whasington (New York, 25 novembre 1981)Membro della "Honor Legion of the Police Department City of New York" (4 luglio 1983)Commendatore dell'"Orde del Merit" del Principato di Andorra (24 dicembre 1986)Onorificenza di 1a classe del Nobilissimo "Ordine della Corona di Thailandia", da S.A.R. il re Bhumibol AdulyadejLaurea ad honorem in Pedagogia dell'Università degli Studi di Lecce (17 ottobre 1995)Diploma del Governo del Distretto Federale di Brasilia (17 dicembre 1996)Decorazione "Andrés Ibañez" della Prefettura di Santa Cruz (Bolivia)Ufficiale dell'Ordine del "Condor de los Andes", dal Presidente della Repubblica di BoliviaMedaglia al merito per servizi umanitari, del Governo municipale di Santa Cruz de La Sierra (Bolivia)Decorazione "Bandera de Oro", del Senato Nazionale della Repubblica di Bolivia (21 ottobre 1998)Collare dell'Ordine patriarcale della Santa Croce di Gerusalemme che porta il nome dell'Apostolo Paolo (riservato agli alti prelati), conferito da S.B. Maximos V il 29 giugno 1999.

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