sabato, maggio 06, 2006
L’amico ebreo
Ho lavorato per l’ebreo meno rabbino (e più rabbinico) che abbia mai visto. A dire il vero non ho mai conosciuto ebrei rabbini. E una barca di fiorentini così - sì. Mi ricordo il mio stupore, credo verso i quattordici anni, quando mi spiegarono il senso proprio della parola “rabbino” – fino ad allora ero stato convinto in buona fede che si trattasse di una deverbalizzazione dal verbo “rabbare” (sulle turbe di chi a quattordici anni ha già parecchio chiaro cosa sia una deverbalizzazione, ma usa parole come “rabbare”, ci dilungheremo un’altra volta). Da allora in poi, ho ricominciato ad usare la parola “rabbino” come la si usa comunemente a Firenze, e cioè del tutto dimentichi del suo senso proprio, a qualsiasi livello sociale, in qualsiasi contesto (ma – controprova fallita: non ricordo di averla mai sentita usare da amici ebrei – mentre “dioprete” fra i gentili di zona è piuttosto corrente). Una volta FSC, un mio amico di Roma parecchio filosemita, me la sentì usare con la consueta disinvoltura – solo che lui, essendo di Roma, la percepì come un insulto razzista, e suppongo la attribuisse alla mia normale scorrettezza politica. Poco dopo arrivò, ed intervenne nella conversazione, una comune amica di Firenze parecchio per benino che, mi pare di ricordare abbastanza per caso, dette di rabbino a qualcuno; FSC non si tenne: “‘Maestro’! Vuol dire ‘Maestro!’”
Vittorio Dan Segre è un maestro ed è un esempio di inaudita generosità verso il prossimo suo culturalmente inteso. Mercoledì scorso, presso i locali dell’Università di Lugano e nell’ambito di un ciclo di conferenze messo sù dall’Istituto Studi Mediterranei di cui è il fondatore, il suo ultimo libro, Le metamorfosi di Israele (Utet, Torino 2006, pp.204, 18€), è stato presentato da Marcello Foa, degli esteri del “Giornale”, e da lui medesimo. Qua lo si segnala con la parzialità di chi si trova ad essere presente nei ringraziamenti e persino nell’indice analitico, con tutta la soddisfazione di chi ha “penato” su quelle pagine per buona parte di un’estate, con tutta la gratitudine di chi ha da poco passato una bella serata a farsi infarcire degli aneddoti di una vita che è difficile non qualificare come straordinaria (la sua autobiografia la trovate in Storia di un ebreo fortunato e nel seguito, Il bottone di Molotov). Verso i sedici anni avrei tanto voluto avere un qualche esercito in cui arruolarmi; la “fortuna” iniziale dell’ebreo in questione è stata di vivere in tempi più “interessanti” dei nostri, e di potersi “arruolare” appunto verso quell’età, con tutto quel che ne è seguito (un’altra? Toh: è stato fra i fondatori del “Giornale” di Montanelli).
Il testo della conferenza forse andrà a finire sul “Foglio” (su cui è già passato, a pezzi e bocconi e sotto forma di intervista-colloquio con Gulio Meotti, mercoledì stesso). Intanto, ai tre o quattro amici a cui il libro è piaciuto parecchio, ma che mi hanno lusingato col dubbio che ci fosse del mio (memori più che altro della quantità industriale di cum laudibus che mi presi nel 2000), vorrei dire che, ahimé, no, ce n’è meno del minimo sindacale che un assistente per quanto pro tempore dovrebbe fornire – il mio mestiere è stato piuttosto quello di arginare la piena di idee che mi veniva riversata addosso. Quanto al merito, Vecellio ha già accennato alla qualità antagonista del pensiero di Segre rispetto alle visioni pannelliane di una Israele nell’Unione Europea; Segre, anzi, vede un futuro “orientale” per lo Stato degli ebrei, sia perché prima o poi il patrocinio degli Stati Uniti potrà ben finire, sia perché la risorsa migratoria degli Shinlung delle cosiddette “tribù perdute di Israele” (forse due milioni di persone fra Birmania e Tailandia) è appena agli inizi del suo sfruttamento (non ne sono ancora arrivati più di qualche decina di migliaia).
Queste Metamorfosi, per definizione in fieri, sono tutte insieme un compendio di storia ebraica for dummies e per espertoni, una vassoiata di giudaiche ghiottonerie colte senza mai il peso dell’erudizione, una sequela di idee non banali su quanto successo nei secoli, nel passato recente e su quanto sta per succedere in Medio Oriente e nel mondo - e persino un esempio di metodo pseudo-talmudico (tutto, e più di quanto paia, ruota attorno ad un paio di versetti biblici). Con punto interrogativo tanto esordiale che finale. Riuscirà Israele a tirarsi fuori dal pantano del paganesimo realpolitico, ad offrire un pensiero politico ebraico originale al secolo vigesimoprimo, a “non avere parte fra le nazioni” come ha ammonito Isaia?
p.s. Segre non è l’amico ebreo di questo post, ma è l’amico ebreo a cui Sergio Romano ha scritto quella Lettera.
Vittorio Dan Segre è un maestro ed è un esempio di inaudita generosità verso il prossimo suo culturalmente inteso. Mercoledì scorso, presso i locali dell’Università di Lugano e nell’ambito di un ciclo di conferenze messo sù dall’Istituto Studi Mediterranei di cui è il fondatore, il suo ultimo libro, Le metamorfosi di Israele (Utet, Torino 2006, pp.204, 18€), è stato presentato da Marcello Foa, degli esteri del “Giornale”, e da lui medesimo. Qua lo si segnala con la parzialità di chi si trova ad essere presente nei ringraziamenti e persino nell’indice analitico, con tutta la soddisfazione di chi ha “penato” su quelle pagine per buona parte di un’estate, con tutta la gratitudine di chi ha da poco passato una bella serata a farsi infarcire degli aneddoti di una vita che è difficile non qualificare come straordinaria (la sua autobiografia la trovate in Storia di un ebreo fortunato e nel seguito, Il bottone di Molotov). Verso i sedici anni avrei tanto voluto avere un qualche esercito in cui arruolarmi; la “fortuna” iniziale dell’ebreo in questione è stata di vivere in tempi più “interessanti” dei nostri, e di potersi “arruolare” appunto verso quell’età, con tutto quel che ne è seguito (un’altra? Toh: è stato fra i fondatori del “Giornale” di Montanelli).
Il testo della conferenza forse andrà a finire sul “Foglio” (su cui è già passato, a pezzi e bocconi e sotto forma di intervista-colloquio con Gulio Meotti, mercoledì stesso). Intanto, ai tre o quattro amici a cui il libro è piaciuto parecchio, ma che mi hanno lusingato col dubbio che ci fosse del mio (memori più che altro della quantità industriale di cum laudibus che mi presi nel 2000), vorrei dire che, ahimé, no, ce n’è meno del minimo sindacale che un assistente per quanto pro tempore dovrebbe fornire – il mio mestiere è stato piuttosto quello di arginare la piena di idee che mi veniva riversata addosso. Quanto al merito, Vecellio ha già accennato alla qualità antagonista del pensiero di Segre rispetto alle visioni pannelliane di una Israele nell’Unione Europea; Segre, anzi, vede un futuro “orientale” per lo Stato degli ebrei, sia perché prima o poi il patrocinio degli Stati Uniti potrà ben finire, sia perché la risorsa migratoria degli Shinlung delle cosiddette “tribù perdute di Israele” (forse due milioni di persone fra Birmania e Tailandia) è appena agli inizi del suo sfruttamento (non ne sono ancora arrivati più di qualche decina di migliaia).
Queste Metamorfosi, per definizione in fieri, sono tutte insieme un compendio di storia ebraica for dummies e per espertoni, una vassoiata di giudaiche ghiottonerie colte senza mai il peso dell’erudizione, una sequela di idee non banali su quanto successo nei secoli, nel passato recente e su quanto sta per succedere in Medio Oriente e nel mondo - e persino un esempio di metodo pseudo-talmudico (tutto, e più di quanto paia, ruota attorno ad un paio di versetti biblici). Con punto interrogativo tanto esordiale che finale. Riuscirà Israele a tirarsi fuori dal pantano del paganesimo realpolitico, ad offrire un pensiero politico ebraico originale al secolo vigesimoprimo, a “non avere parte fra le nazioni” come ha ammonito Isaia?
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